L’epoca delle passioni tristi

Ho letto di questo bellissimo libro scritto da Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino che vive da molti anni a Parigi, e Gérard Schmit professore di psichiatria infantile e dell’adolescenza all’università di Reims.

Risparmio ai miei tre lettori la recensione del libro. Ne trovate molte in rete. Consiglio quella di Umberto Garimberti su Repubblica del 01/06/2004.  Caldeggio vivamente la lettura del libro a tutti coloro che hanno a cuore il problema del SENSO e considerano centrale la riflessione sul FUTURO.

I nostri autori affondano la riflessione su quella che chiamano “inversione di segno” del futuro, dal futuro come premessa al futuro come minaccia. Quando il futuro chiude la sue porte anche le nostre menti si affliggono . La morte di Dio e delle grandi narrazioni storiche e la fine della rivoluzione come redenzione non assicurano più un futuro luminoso.

La riflessione politica, filosofica e clinica dei nostri due autori potrebbe scatenare un nuovo dibattito; e rispondere al quesito del mio amico Dimitri che qualche giorno fa poneva il seguente  interrogativo: la politica è ancora il luogo di lotta per la conquista della felicità ? Il libro da un contributo a questa riflessione

I nostri autori spingono a fondo l’acceleratore su ciò che loro chiamano la “clinica del legame”.  Faccio una breve parentesi e vi rimando anche anche ad una pensiero fatto qualche tempo fa sull’importanza di esercitarsi a tenere in equilibrio “relazioni deboli”.

Il legame con gli altri, come  “la dipendenza non è né una condanna né un limite: è invece la base di ciò che Spinoza contrappone alle passioni tristi, la base della gioia, della passioni gioiose. Sono queste passioni che dischiudono nuove dimensioni della vita al di là della nostra piccola vita individuale”

I nostri autori arrivano a  questa conclusione attraverso un percorso che denuncia il danno creato dall’approccio scientista della clinica della classificazione. La classificazione identifica i soggetti, le persone,  attraverso i sintomi. Sintomi che tentano di riassumere semplicisticamente il comportamento del soggetto in società. Le persone sono identificate in società come il sintomo principale che le “affligge”.

Ogni paziente o  parente stretto di paziente (genitore con i figli) richiede che siano rimossi i sintomi per diventare di nuovo normale.  Ma diventare “normali” con questa visione genera nuova “tristezza”.

“Il “trionfo” presuppone che si recida ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e e complessità. E fallire significa naufragare nell’acredine dei sentimenti di invidia e del desiderio dei rivincita, che sono due facce della stessa medaglia”

Bellissimo il caso di Julien un bambino di sei anni che “non è come dovrebbe essere”.

“..attualmente Julien suona in diversi gruppi musicali, nessuno dei sintomi che l’avevano portato a rivolgersi ai servizi psichiatrici è scomparso: ma in compenso, nulla  evoca più nella sua vita  o in quella della sua famiglia e delle persone che lo circondano la minima tristezza, la minima disperazione. Non c’è più traccia dell’angoscia dell’epoca in cui la pretesa era quella di trovare qualcuno che aiutasse Julien a disfarsi dei suoi sintomi affinché potesse emergere un altro Julien sano e normale.

Oggi Julien non è né più forte né più debole. E’ una persona che , grazie alla creazione di legami con gli altri attraverso la sua rete abita lo spazio della fragilità, quello della situazione, nel quale tutti dipendiamo dagli altri.”

Forse la costruzione dei legami affettivi e di solidarietà non esaurisce il problema e non risponde alla domanda del mio amico Dimitri. In ogni caso aiuta le persone ad uscire dalle mura nelle quali ci troviamo ad idolatrare il potente e vittorioso individuo.

Vittorioso ma triste!

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Silenzio delle idee lunghe

tanti piccoli flebili suoni cantano un brusio di fondo accompagna costantemente  le ore della nostra giornata scrivo sul mio iPhone direttamente nella

Per fare tutto ci vuole un fiore

Per fare un tavolo ci vuole il legno, Per fare il legno ci vuole l’albero, Per fare l’albero ci vuole il seme,

2 risposte

  1. Caro Alessandro, rispondo alla chiamata 😉 Premetto che non ho letto il libro e probabilmente, visto l’elenco di libri “pending” che ho da leggere non avverrà se non tra qualche mese.
    Però, come sai, ho idee forti su questo argomento. Appartengo (con orgoglio) a quella categoria di psicologi (un movimento che si è esteso a macchia d’olio in tutto il mondo) che rifiuta le classificazioni mediche delle malattie mentali, diversità o disabilità che dir si voglia. Questa tendenza è così estesa che ormai non è più un problema di semantica ma, ahimé, un problema sociale. Per questo motivo difficilissimo da estirpare. Nonostante io abbia eliminato i “sintomi” della differenza di mio figlio, questi “sintomi” vengono riportati alla luce ogni volta che si presenta un evento sociale. Ad esempio, la ricerca di una scuola. Non appena una scuola accetta mio figlio, tutta una serie di problematiche, richieste al dipartimento della pubblica istruzione, documenti ufficiali da firmare, telefonate da fare, ci consuma inesorabile il tempo quotidiano. E non perché ci sia una differenza effettiva ma perche tali “sintomi” vennero classificati dalla categoria medica (che come sai ho in disgusto) anni fa in due parole: Asperger Syndrome.
    Allora, o si va a vivere sulla costellazione di Vega (ma purtroppo il warp drive non è stato ancora inventato ;)) oppure, per puro senso di sopravvivenza, si accetta la natura discriminatoria dell’Homo Sapiens… è una discussione che richiederebbe pagine e pagine… ma forse prosto vi dedicherò un ennesimo post, agganciandomi al tuo;)
    Grazie.

  2. Cara Martina,
    a proposito della costellazione di Vega…
    Mi sento continuamente in conflitto tra andare o stare.
    Tra un solipsistico andare, libero da vincoli e un pieno e felice stare.
    Lo stare talvolta può sembra non essere felice ma contiene la speranza che possa diventarlo
    Al contrario dell’andare.
    ciao
    grazie a te!

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